Diffamazione: la verità del fatto che esclude la punibilità non è scalfita da inesattezze marginali

Diffamazione: la verità del fatto che esclude la punibilità non è scalfita da inesattezze marginali
23 Giugno 2017: Diffamazione: la verità del fatto che esclude la punibilità non è scalfita da inesattezze marginali 23 Giugno 2017

La libertà di pensiero, garantita dall’art. 21 Cost., trova un limite nell’art. 595 c.p., essendo la diffamazione un atto illecito e non la manifestazione di un diritto costituzionalmente garantito.

Tuttavia, ai sensi del successivo art. 596 c.p., quando l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la prova della verità del fatto medesimo costituisce una causa di esclusione della pena.

Il requisito della verità della notizia, però, non deve essere inteso in senso assoluto.

Così si è espressa di recente la Corte di Cassazione, sezione I civile, con la sentenza n. 14447/17 del 9 giugno 2017.

Nel caso di specie, un avvocato aveva citato in giudizio il Ministero dell’Interno chiedendone la condanna al risarcimento dei danni per pretese dichiarazioni offensive della sua reputazione, contenute negli atti di indagine relativi alla strage di Capaci del 1992 (quella in cui perse la vita Giovanni Falcone).

In primo grado, l’avvocato “diffamato” aveva ottenuto una pronuncia parzialmente favorevole, con la condanna del Ministero dell’Interno ad un risarcimento di 95.000,00 euro, confermata in secondo grado.

Il Ministero dell’Interno proponeva quindi ricorso in Cassazione, lamentando, tra le altre, il fatto che fosse stata riconosciuta “valenza diffamatoria” anche a notizie secondarie.

I Giudici di Piazza Cavour hanno accolto in parte le censure del ricorrente ed hanno affermato che “in tema di risarcimento dei danni da diffamazione, la verità dei fatti oggetto della notizia non è scalfita da inesattezze secondarie o marginali ove non alterino, nel contesto dell'articolo o di altro mezzo di diffusione, la portata informativa dello stesso rispetto al soggetto al quale sono riferibili” (vedi, in senso conforme, Cass. Civ. n. 17197/15).

Infatti, ha evidenziato la Corte “dalla sentenza impugnata si evince che il giudice di primo grado aveva esaminato tutte le circostanze indicate nelle relazioni investigative, ma aveva individuato come effettivamente false solo alcune di esse, che riteneva però di valenza del tutto secondaria, essendosi le altre notizie pubblicate dalla stampa rivelate del tutto veritiere”.

In altre parole, l’effetto diffamatorio, derivante dalla falsità delle notizie, poteva attribuirsi solo ad alcune informazioni secondarie e marginali rispetto alla pubblicazione di tutti gli atti di indagine rivelatisi veritieri.

Nessun risarcimento ex art. 2043 c.c., quindi, può essere riconosciuto all’avvocato “diffamato”, atteso peraltro che la lesione della reputazione personale richiede che la condotta asseritamente diffamatoria sia valutata con riferimento all’effettiva lesione dell’onore e della reputazione di cui la vittima gode tra i suoi consociati e non “quam suis, e cioè in riferimento alla considerazione che ciascuno ha della sua reputazione”.

Per tali ragioni, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata e rinviato la causa alla Corte d’Appello territorialmente competente.

 

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